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Titolo: Delitto e castigo
Autore: Fëdor Dostoevskij
Anno prima edizione originale: 1866
Acquistalo su Amazon: Mondadori classici, Feltrinelli, Einaudi, Newton Compton Editori
La dialettica tragica del desiderio di Memorie del sottosuolo, in Delitto e castigo sfocia nell’atto. Questo romanzo è il rendiconto psicologico di un crimine commesso dal giovane studente Rodiòn Romànovič Raskol’nikov. Sotto l’idea di essere un uomo superiore, decide di uccidere un pinocchio nocivo per la società: la vecchia, avida e sgradevole usuraia Alëna Ivanovna.
“Ma la vecchia è solo una sciocchezza!” pensava con ardore e impeto. La vecchia potrebbe anche essere un errore, non è lei il punto! La vecchia era solo una malattia… Volevo solo varcare il confine al più presto… e non ho ucciso un essere umano, ho ucciso un principio!
Delitto e castigo mette in campo pochi elementi spazio temporali: San Pietroburgo con piazza Sennaja e i 14 giorni di naufragio psicologico del criminale. La città in Dostoevskij è solo l’atmosfera dell’uomo, soltanto un momento del tragico destino dell’uomo, la città è impregnata dall’uomo ma non ha un’esistenza autonoma, è solo lo sfondo dell’uomo. Ad accompagnare questa storia fintamente “gialla” non mancano colpi di scena, episodi violenti (assassinio, stupro, suicidio), deliri e sogni allucinanti, nei quali la coscienza disegna ciò di cui non parla.
Per Dostoevskij, grande antropologo e studioso della natura umana, l’uomo procede nella via della libertà, ma la libertà si muta in schiavitù. L’immanente principio divino colpisce la coscienza umana, consumando l’uomo. Raskol’nikov non è un eroe negativo ma solo un personaggio disorientato che, fuorviato da un’ideologia portatrice di morte, sperimenta la sua libertà attraverso il Male, Male che nasce insieme all’idea di essere uomini superiori, cui tutto è permesso, e si palesa con l’omicidio. Fa riflettere il fatto che prima chiami l’atto quella cosa, solo una volta compiuto prenda il nome di omicidio.
«Basta così!» disse con decisione e solennità. «Bando ai miraggi, bando alle finte paure, bando ai fantasmi!… C’è la vita! Forse che adesso non stavo vivendo? Non è morta la mia vita assieme a quella della vecchia! A lei il regno dei cieli, e basta, madre santa, adesso è tempo di pace! Il regno della ragione e della luce, adesso, e… e della volontà, e della forza… e staremo a vedere! E vedremo chi avrà la meglio!»
Il passaggio all’atto dell’omicidio appare necessario per la rinascita del personaggio, una morte e una resurrezione che dev’essere vissuta prima di rinascere in un nuovo Io al pari dell’uscita di Lazzaro dalla tomba (passo del Vangelo presente all’interno del romanzo). Analizzando tutto il percorso di crescita spirituale di Raskol’nikov, il castigo non risiede tanto nel senso di colpa per un reato ignobile, quanto nella difficoltà a giungere ad un reale pentimento.
Oh, come sarebbe stato felice se avesse potuto incolpare se stesso! In quel caso avrebbe sopportato qualsiasi cosa, persino la vergogna e il disonore. Ma, per quanto si giudicasse con severità, la sua coscienza esasperata non trovava alcuna colpa particolarmente terribile nel suo passato.
Il pentimento non si può raggiungere da soli secondo Dostoevskij, ma è il frutto di uno sguardo compassionevole. Qui subentra il ruolo dei personaggi femminili.
In Delitto e castigo, privo sia dell’incanto dell’amore sia dell’armonia familiare, alla figura femminile non è riservato un posto indipendente. Lui scopre solo il tragico cammino del personaggio maschile, la donna ha una gran parte in questo cammino, ma è solo lusinga e passione dell’uomo. Seppur subordinato il ruolo, la personalità non viene intaccata. La sorella di Raskol’nikov, Dunja, ha la forza di decidere del suo destino, dando un grande esempio di femminismo sottraendosi alle lusinghe di tutti quegli uomoni che vorrebbero assoggettarla.
Dostoevskij prende l’uomo in quel momento del destino in cui si sono scosse tutte le fondamenta della vita. Non esistono personaggi totalmente positivi o negativi, forse solo Razumichin, l’amico leale e proattivo che tutti vorremmo avere.
Mentire alla propria maniera è quasi meglio che dire una verità che appartiene ad altri; nel primo caso tu sei una persona, ma nel secondo sei soltanto un pappagallo!
Sonja, ad esempio, costretta ad un lavoro disonorevole agli occhi della società, mostra un animo puro e altruista. Dall’altra parte Svidrigajlov, uomo dalla munifica carità, viene accusato di omicidio e pedofilia. Se la libertà di Raskol’nikov porta al delitto, quella di Svidrigajlov dissolve la personalità. In lui è dipinta la degenerazione della personalità umana, la personalità rovinata dalla sensualità sfrenata.
Pur non annoverando Delitto e castigo fra i miei romanzi classici preferiti, non posso ignorare che una volta terminato i personaggi e i temi trattati abbiano permeato la mia pelle in maniera indelebile. Libro non filosofico, ma dalle premesse filosofiche, non può lasciare indifferenti in quanto pone interrogativi universali. Sento proprio il bisogno di leggere altre opere di Dostoevskij per provare a comprendere ancor meglio il suo pensiero.
Forse durante la lettura quello che mi ha “distratta” è stato il modo in cui l’ha fatto. Il narratore lascia molto spazio ai dialoghi e ai monologhi, ed è attraverso i racconti degli stessi personaggi che si scoprono le loro vite. Questo, che per alcuni potrebbe anche essere un punto di forza, a me ha in alcuni punti annoiata.

audionotes edito Emons Edizioni
Ho anche questa volta ho accompagnato la lettura i cartaceo ascoltando l’audiolibro di Delitto e castigo edito Emons Edizioni. 26 ore lette magistralmente da Paolo Pierobon, voce che avevo già apprezzato in Dracula, con un’introduzione di Anna Zafesova.
L’audiolibro è disponibile in audionotes, un quadernino in cui troverete il qrcode con cui ascoltarlo, l’introduzione scritta e delle pagine bianche comodissime per prendere appunti. Lo potete anche ascoltare sia su Audible, sia su Storytel.
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Titolo: Il signore delle mosche (Lord of the flies)
Autore: William Golding
Editore: Mondadori
Pagine: 229
Anno prima edizione originale: 1954
Acquistalo su Amazon: copertina flessibile
Ho letto Il signore delle mosche grazie alla mia challenge di lettura ispirata dalla serie tv Pretty Little Liars (#PLLBookChallenge) di cui vi parlo in questo articolo. Vi lascio di seguito l’estratto della serie tv in cui se ne parla (Puntata S03*16).
William Golding sospinge a forza verso dimensioni atemporali e in un certo senso rarefatte. Nel romanzo non si fa riferimento a luogo e tempo precisi. Egli stesso ha, infatti, in più di una circostanza, fatto riferimento per definire la propria scrittura al genere della «favola morale» ed ai rapporti che un simile modello stabilisce coi riti e miti del mondo occidentale.
Il signore delle mosche è un grande romanzo d’atmosfera in cui a fare da padrone sono i personaggi, isola compresa. Il romanzo mantiene dall’inizio alla fine una tensione emotiva nella quale a sfidarsi sono l’homo abilis e l’homo sapiens.
C’era ancora uno spazio intorno a Henry, un diametro di oltre cinque metri, in cui non osava tirare. Qui, invisibile eppure ancora forte, resisteva il tabù della vecchia vita. Intorno al bambino accovacciato c’era la protezione dei genitori e della scuola, dei poliziotti e della legge. Il braccio di Roger rimaneva condizionato da una civiltà che di lui nulla sapeva e che era in rovina.
Questi ragazzi, alcuni ancora bambini, potrebbero avere paura di qualunque cosa, eppure ciò che devono temere principalmente sono le persone. Il male non viene dall’esterno, come ne L’isola di corallo di Robert M. Ballantyne, ma dall’interno. La scrittura si origina da un imperativo etico: mostrare agli uomini del nostro tempo il buio (darkness è parola chiave nel suo macrotesto), il motivo per cui il titolo utilizza uno degli appellativi biblici del diavolo, Il signore delle mosche, risulta presto chiaro al lettore.
Di contro, però, i bambini hanno qualcosa di freddo, di meccanico, si dovrà aspettare la protagonista del romanzo di Doris Lèssing, Memorie di una sopravvissuta, per avere un quadro incredibile ed impressionante del male così come esso si attiva, prima ancora di farsi parola, in una mente infantile.
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Titolo: Denti bianchi
Autore: Zadie Smith
Editore: Mondadori
Pagine: p. 552
Anno prima edizione originale: 2000
Acquistalo su Amazon: edizione Mondadori (brossura)
«lo stesso ho delle difficolta. in questo paese, tutti abbiamo delle difficoltà, in questo paese che per noi è allo stesso tempo nuovo e vecchio. Siamo persone scisse, non è vero?»
«Siamo tutti persone scisse. Personalmente, metà di me vorrebbe starsene seduta pacificamente con le gambe incrociate, a lasciare scivolare via tutte le cose che non riesce a controllare. Ma l’altra metà vorrebbe combattere la guerra santa. Jihad!
L’amicizia tra Alfred Archibald (Archie) e Samad Miah Iqbal dura dal 1945, anno in cui si trovavano entrambi sullo stesso carro armato Churchill durante il conflitto tra Inghilterra e Germania. Nel 1973, dopo trent’anni di lontananza, condividono lo stesso quartiere di Londra. Famiglia per metà giamaicana e testimone di Geova quella del primo e interamente bengalese e mussulmana quella del secondo. “Interamente” si fa presto a dirlo dal momento che uno dei gemelli di Samad, Millat, preferisce farsi chiamare Mark Smith e ascoltare Michael Jackson e Bruce Springsteen. A questo quadro culturale e religioso già colorito si aggiunge la famiglia Chalfen, londinesi da diverse generazioni che si comportano come il tipico colonizzatore europeo: devono educare il “selvaggio”.
«Da dove vengo io» disse poi «uno vuole conoscerla, la ragazza, prima di sposarla.»
«Da dove vieni tu, le verdure si cuociono finché non cadono a pezzi» disse Samad, asciutto. «Ma questo non significa che è una buona idea.»
Archie e Samad, nella loro diversità, ci danno la cifra stilistica di Zadie Smith: una montagna russa tra ironia e dramma. Archie non è in grado di prendere decisioni e porta sempre con se una monetina. La sua vita è costantemente in bilico tra una testa e una croce. Samad è un bengalese perennemente in conflitto tra i suoi impulsi sessuali e i divieti della sua religione. Al primo sono da collegare i momenti più esilaranti del romanzo, al secondo quelli più drammatici.
I due patriarchi condividono non solo il loro rifugio, la Sala da biliardo del bar O’ Connell, ma anche le preoccupazioni verso il futuro dei figli. Più cercano di indirizzarli verso le loro origini, più essi le rinnegano. Il cambio di nome di Millat, il preferire l’Inghilterra al Bangladesh di Magit e il baratto della chioma afro di Irie per una rossa e liscia sono solo i segni più visibili.
A mediare tra i due, la famiglia Chalfen, che personalmente mi ha regalato solo momenti di orticaria. Sono un chiaro rimando ai colonizzatori inglesi, sempre impegnati a dare fede cristiana e guida morale agli indigeni. Dannatamente fastidiosi nel loro volersi mostrare perfetti e perennemente nel giusto. Si riferiscono a se stessi con verbi, sostantivi e aggettivi (chalfenisti ?!?), con una madre col vizio di fare analogie tra persone e fiori e con un padre nel mirino degli animalisti per i suoi studi sul DNA ricombinante.
La lettura di queste 552 pagine è puro godimento. Zadie Smith ha la capacità di raggiungere picchi di tensione emotiva per poi smorzarli, in maniera estremamente ironica, con un’immagine quasi cinematografica per la vividezza di suoni ed espressioni. Più volte si arriva alla soglia di un omicidio, un suicidio o un attentato, eppure il lettore ne esce sempre con un sorriso.
Il finale non tradisce questa sua peculiarità, ma sicuramente tradisce le alte aspettative del lettore. Un po’ troppo frettoloso, avrei gradito qualche capitolo in più per approfondire l’epilogo di alcune situazioni e godere ancora della sua straordinaria penna. Se penso che questo è un esordio ancora stento a crederci.
I denti si prestano benissimo come analogia per tanti messaggi che vuole lasciare al lettore Zadie Smith. Io ne ho trovati alcuni, ma ogni lettore ne troverà di diversi.
-Nella vita non ci sono seconde possibilità, la dentizione, una volta persa, non ricresce, e lo sa bene uno dei personaggi;
-I segreti vengono fuori al momento giusto come i denti del giudizio;
-Il primo gesto di intimità tra due persone è lasciare il proprio spazzolino nel bagno dell’altro.
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Titolo: Il mondo nuovo (Brave New World)
Autore: Aldous Huxley
Editore: Mondadori
Pagine: 471
Anno prima edizione originale: 1932
Acquistalo su Amazon: ed. illustrata, copertina flessibile
Probabilmente non avrei mai letto Il mondo nuovo senza la mia challenge di lettura ispirata dalla serie tv Pretty Little Liars (#PLLBookChallenge) di cui vi parlo in questo articolo. Mi fa sorridere il fatto che i libri di questa challenge siano collegati tra di loro. Come ne Il giovane Holden veniva citato Addio alle armi di E. Hemingway, tappa di giugno, qui si anticipa la tappa di luglio: La tempesta di W. Sheakeapeare.
Il libro lo prende in mano Aria nella puntata S03x12 nell’appartamento di Mr Fitz. Vi lascio di seguito l’estratto.
Come sarebbe bello se non si dovesse pensare alla felicità.
Ne Il mondo nuovo tutti sono felici. Sempre. A contribuire a questo imperituro stato emotivo c’è il soma, una pillola senza effetti collaterali, che cancella ogni turbamento. In questo mondo le persone vivono apparentemente una vita perfetta, fatta di vicende rassicuranti, accuratamente predisposte da «ingegneri emotivi», ma a che prezzo? Cittadini robotizzati, riprodotti in serie e divisi in classi sociali i cui ruoli sono stabiliti dal Centro per l’incubazione fin dalla loro creazione. Individui la cui coscienza critica è addormentata, schiavi di una società votata al mito dell’Efficienza e della Produzione: e vana sarà la lotta del selvaggio, che è ancora legato al superato culto del Libro e dei sentimenti, per sostituirli con la lettura di un’opera ormai incomprensibile e assurda come l’Otello.
«Perché non fa leggere loro l’Otello?»
«Perché il nostro mondo non è il mondo di Otello. Non si possono fare delle macchine senza acciaio, e non si possono fare delle tragedie senza instabilità sociale. Adesso il mondo è stabile. La gente è felice; ottiene ciò che vuole, e non vuole mai ciò che non può ottenere. Sta bene; è al sicuro; non è mai malata; non ha paura della morte; è serenamente ignorante della passione e della vecchiaia; non è ingombrata né da padri né da madri; non ha spose, figli o amanti che procurino loro emozioni violente; e condizionata in tal modo che praticamente non può fare a meno di comportarsi come si deve. E se per caso qualche cosa non va, c’è il soma… che lei getta via, fuori dalle finestre, in nome della libertà, signor Selvaggio. Libertàl»
George Orwell e il suo clamoroso successo di 1984 (puoi leggere la mia recensione qui) hanno finito con il relegare Il mondo nuovo e le altre anti-utopie, come La macchina del tempo di H. G. Wells e Noi di E.I. Zamjatin, in un cono d’ombra.
Eppure io credo che Il mondo nuovo sia invecchiato ancora meglio di 1984. Nel libro di Orwell il lettore ha ben chiaro dall’inizio di non volersi trovare un giorno vittima di un grande occhio che lo spia, in una società controllata quasi esclusivamente dal castigo e dal timore di esso. Nel mondo di Huxley il castigo è raro e mite. In realtà si tratta di una celata manipolazione, non violenta, fisica e psicologica.
Aldous Huxley la definisce favola, forse per l’intento in qualche modo moralistico, ma quello che si trova davanti il lettore è un incubo grottesco. In Brave New World si affronta, con scintillante arguzia, il problema: se i progressi tecnologici dovessero portare alla creazione di un mondo in cui ogni individuo fosse perfettamente adattato all’ambiente da non essere più soggetto ad alcuno sforzo morale, sparirebbe e con essa le virtù tradizionali, i tradizionali metri di valutazione della personalità.
Più sfogliavo le pagine e più capivo che il mondo descritto è molto simile al nostro. Questa manipolazione delle forze non razionali (impulsi, istinti, desideri, aspirazioni, sensazioni ed emozioni) non sta portando ad un celato totalitarismo perfetto? Perfetto perché anche il cittadino ne è complice. Nel Mondo nuovo, la mente dell’uomo, dalla prima infanzia, è costituita solo da cose “suggerite”, come i bisogni “indotti”, dalla politica del: «è meglio buttare che aggiustare». Un esempio è il condizionare la massa ad utilizzare apparati complicati per praticare sport all’aria aperta o bandire la solitudine, e con essa, tutti i divertimenti solitari come la lettura.
Non si può consumare molto se si resta seduti a legger libri.
Il Grande fratello di Orwell soddisfa la sua brama di potere infliggendo dolore agli altri, Il Mondo nuovo lo fa in modo non meno umiliante. Vuole solo che i cittadini non diano fastidio, non pensino, e quale modo migliore se non legalizzando una certa forma di libertà sessuale? Un mondo fatto di pseudo-cose (pseudo-spumante ad esempio) e di succedanei (s. di gravidanza, s. di violenta passione) che insieme al soma non costituiscono un vizio personale, ma sono un’istituzione politica. Dietro tutta questa rincorsa alla felicità (di chi poi? forse non la nostra) si cela una delle armi più potenti dell’arsenale del dittatore.
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Titolo: Eugenie Grandet
Autore: Honore De Balzac
Editore: Mondadori
Pagine: p. 252
Anno prima edizione originale: 1833
Acquistalo su Amazon: edizione Mondadori
Quattro uomini avranno avuto una vita immensa…: Napoleone, Cuvier, O’Connel, ed io voglio essere il quarto. (Honore De Balzac).
Nella letteratura francese il passaggio dall’ideale al reale è aperto da un grande narratore romantico, Honore De Balzac (1799-1850), che trae gli strumenti per leggere in modo nuovo il reale.
Leggendo Eugenie Grandet il primo pensiero è stato: mi ricorda tanto Madame Bovary! Non a caso molti ritengono che senza Balzac non ci sarebbero stati né Flaubert né Zola, non tanto nel dare ricette sul modo di scrivere, quanto sul mettere in luce realtà finora taciute.
Purtroppo la sua vita è stata costellata di insuccessi. Se con la sua fantasia rende i suoi personaggi ricchi o miserevoli con un’incredibile padronanza delle leggi che reggono gli affari e l’economia, lui è un uomo perennemente in lotta con il problema di vivere negli agi, sempre alle prese con i debiti, legato alla benevolenza o all’indulgenza degli amici.
La società non fa forse dell’uomo, a seconda dei luoghi dove si svolge la sua azione, tanti uomini diversi quante sono le specie della società umana, tanti uomini diversi quante sono le specie della zoologia?
Non è il pensiero a fare la grandezza di Balzac: è la sua conoscenza dei meccanismi sociali e la sua aderenza al reale. Egli stesso si definisce analista e pittore della città contemporanea. Questa realtà è rappresentata dai suoi personaggi, che ci «appaiono subito irti nelle loro caratteristiche» (Henry James).
I personaggi principali: Eugenie, monsieur e madame Grandet, la domestica Nanon (donna corpulenta “addestrata” da Grandet a risparmiare fino all’ultimo centesimo) e il cugino Charles che viene da Parigi e che ci regala il più grande colpo di scena del romanzo.
Eugenie incarna la tipica vittima moderna. Attirata dal bel giovane Charles, lo ama e lo protegge. Ma non è ancora una Madame Bovary. Riesce a trovare una sua strada senza farsi annientare dalle sofferenze. Balzac a differenza di Flaubert non è impassibile e impersonale, guarda Eugenie con affetto tanto quanto con sospetto Charles.
La pietà.
In questo sentimento sublime, la donna è superiore all’uomo; è l’unica superiorità ch’ella voglia far avvertire, l’unica ch’ella perdoni all’uomo di lasciarle esercitare su di lui.
Monsieur Grandet, padre di Eugenie, cita frequentemente Napoleone, modello degli ambiziosi «arrivati». Le parti più esilaranti sono legate proprio a lui. Ometto intelligente e speculativo, fa vivere la famiglia nella totale indigenza, per lui il denaro non si spende: si investe o si accumula, finge persino di essere sordo e balbuziente per confondere l’interlocutore durante gli affari.
Gli avari non credono in una vita futura, per loro il presente è tutto. Questa considerazione getta una luce orribile sulla nostra epoca, nella quale più che in qualsiasi altra il denaro domina le leggi, la politica, i costumi. Istituzioni, libri, uomini, dottrine, tutto cospira a minare quella fede in una vita futura su cui da milleottocento anni poggia l’edificio della società. La morte è un trapasso poco temuto. Il futuro che ci attendeva dopo il requiem è stato trasferito al presente. Tutti pensano a raggiungere per fas et nefast? il paradiso terrestre del lusso e dei vani godimenti, a indurire il cuore e a macerare il corpo per il possesso di beni effimeri, come un tempo sì pativa il martirio della vita per il possesso di beni eterni!
Balzac, diverso in questo da altri romantici, non concede all’amore un posto di primo piano tra le passioni. Protagonista piuttosto invadente de La Commedia Umana è piuttosto il denaro.
Le frequentazioni del giovane Balzac sono agiati borghesi la cui filosofia si basa su due verità essenziali, la prima è che il denaro è l’«unico dio moderno in cui si abbia fede» (La cugina Bette), la seconda è che il lavoro, e non il genio o i diritti ereditari, a decidere tutto; niente è regalato.
Per Balzac il denaro non è né bene né male, ma semplicemente una forza, che può usarsi in vari modi.
Anche Eugenie Gradet, tra gli eroi puri di Balzac, deve fare i conti con il suo potere, e a volte soccombe, in un significativo coincidere della loro purezza con l’incapacità negli affari e nell’amministrazione della vita quotidiana.
Il ritmo del romano è incalzante, complice la mancanza di capitoli. La costruzione intricatissima è ricca di minuziosità, intrighi e combinazioni finanziarie descritte senza risparmio di particolari.
L’apparente inutilità di alcune divagazioni e lo stile greve di alcune descrizioni che punteggiano notoriamente i suoi testi, in Eugenie Grandet li ho trovati divertenti e affascinanti, come un esempio di una visionaria creatività.
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]]>Titolo: Lolita
Autore: Vladimir Nabokov
Editore: Adelphi
Pagine: p. 395
Anno prima edizione originale: 1951
Acquistalo su Amazon: edizione Adelphi
Ho letto Lolita grazie alla mia challenge di lettura ispirata dalla serie tv Pretty Little Liars (#PLLBookChallenge) di cui vi parlo in questo articolo. Vi lascio di seguito l’estratto della serie tv in cui se ne parla (Puntata S02*12)
L’attrazione di un uomo per un certo tipo di ragazza pubescente, la “ninfetta” (diventata una delle figure capitali del ‘900) lo porta a commettere azioni malvagie. Lola, Dolly, Dolores, sono molti i suoi nomi, ma per il protagonista, un quarantenne studioso di letteratura francese, fu sempre e soltanto Lo-li-ta.
Con uno stile tra l’ironia e il sarcasmo il protagonista e io narrante , Humbert Humert, si rivolge a tutti e non solo a dei possibili giurati di una corte che dovrà stabilire una sua colpevolezza.
Era davvero speciale, quella sensazione: un disagio atroce e opprimente, come se fossi a tavola con il piccolo fantasma di una persona che avevo appena ucciso.
Come Allison Dilaurentis anche la piccola Dolores Haze (Lolita) può sembrare più grande dell’età che ha: 12 anni.
C’è chi dietro quel numero ci vede ancora una bambina, e chi purtroppo intravede una “ninfetta”, piccola donna che seduce con le sue forme ancora accennate. Tema questo che non divide, allontana direttamente dalla lettura e questo, a mio avviso, è un peccato. Il libro suscitò e suscita tutt’ora polemiche perché dona un’eloquenza seducente a un pedofilo e assassino.
«L’io narrante non sono certo io» avvisa Nabokov, ma come dice il protagonista: “Puoi sempre contare su un assassino per uno stile di prosa stravagante”. Lolita è il manoscritto di Humbert Humbert, le cui stramberie, opinioni personali sono risibili, ma Nabokov non ha alcuna intenzione di metterlo in una luce favorevole, non lo esonera dalla sua responsabilità.
Sono arrivata alla fine del libro con una curiosità molto forte. Per quanto Humebert Humbert parli di ragazze “provocanti”, rimangono pur sempre delle bambine che hanno appena dato uno sguardo all’adolescenza e che meritano un adulto che le guidi, non che le assecondi. Motivo per il quale Lolita fa le cose e poi si pente. Nonostante tutto ciò che avvenga sia anni luce per fortuna dal mondo che mi appartiene, credo che sia questo il suo punto di forza. Il fatto che una cosa non ci appartenga non vuol dire che non esista. In un certo qual modo la sua storia rapisce, complice la storia “insolita” è la scrittura di Nabokov.
Il libro rientra in quella “voluttà estetica”, in quel senso di essere a contatto con altri stati dell’essere dove l’arte è la norma. Leggiamo e giudichiamo Lolita per quello che sostiene di essere: un romanzo.
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Titolo: Grandi speranze (Great Expectations)
Autore: Charles Dickens
Anno prima edizione originale: pubblicato a puntate tra il 1860-61
Acquistalo su Amazon: ed. Salani, ed. Einaudi
Ho letto Grandi speranze grazie alla mia challege di lettura ispirata dalla serie tv Pretty Little Liars (#PLLBookChallenge) di cui vi parlo in questo articolo.
Una volta per tutte: spesso, anche se non sempre, mi resi conto, patendone, che l’amavo contro ogni possibile ragione, promessa, pace, speranza, felicità, contro ogni possibile scoraggiamento. Una volta per tutte: non l’amai di meno, rendendomene conto, né me ne sentii frenato, più di quanto mi sarei lasciato frenare se l’avessi fervidamente creduta la perfezione fatta persona. (Pip)
Nel 1859 Dickens lasciò «Household Words» a causa di una controversia sorta con l’editore, e quasi subito lanciò un altro settimanale, «All the Year Round», che lasciva maggiore spazio riservato alla narrativa. Gli ultimi romanzi di Dickens sono perciò meno direttamente legati ai temi d’attualità rispetto ai precedenti.
Il nuovo giornale esordì con il romanzo storico Racconto di due città (1859), generalmente trascurato dai critici, al quale seguì Grandi speranze (1860-1861) considerato di gran lunga il suo romanzo di maggior peso artistico e quello scritto meglio. Come David Copperfield è autobiografico e rappresenta la favola più alta che Dickens abbia concepito sull’arrivismo.
La vita del giovane Pip, orfano e malvoluto dalla sorella, cambia la vigilia di Natale del 1812 dando soccorso ad un evaso. Questo gesto di compassione (misto a paura) porterà Pip a vivere tante situazioni al limite tra il sensazionalistico e il grottesco. Riceve una somma di denaro da un benefattore sconosciuto e conosce Miss Havisham. Questa eccentrica donna vive a Satis House con una giovane ragazza, Estella, e con quello che rimane delle sue nozze mai avvenute: indossa perennemente il suo abito da sposa e mantiene intatto il banchetto nuziale…torta compresa!
Le umili origini e la grossolana educazione di Pip diventano per lui motivo di vergogna tanto da portarlo a rinnegare le sue origini e chi gli ha voluto bene nel suo passato.
«Ti dirò» disse con lo stesso rapido appassionato sussurro, «cos’è il vero amore. È devozione cieca, silenziosa umiliazione, sottomissione totale, fede assoluta contro se stessi e il mondo intero, abbandono del proprio cuore e della propria anima all’aguzzino – come ho fatto io!» (Miss Havisham)
Se c’è un personaggio letterario che rispecchia a pieno quello di Allison de Laurentis è proprio quello di Estella. Ragazza bellissima ma assolutamente senza cuore, forgiata con una precisa missione: spezzare il cuore agli uomini.
le ho rubato il cuore mettendo ghiaccio al suo posto. (Miss Havisham)
Allison però ha proprio ragione quando dice che i nomi dei personaggi “sembrano quelli dei pupazzi di pezza”. La galleria di personaggi che ci offre Dickens sembra avere molto a che fare con il pittoresco, a tratti addirittura con il grottesco.
L’«io» del narratore è posto saldamente al centro degli eventi perfino quando questi riguardano soprattutto altri. Pip come narratore si piazza sempre al centro delle scene a Satis House, anche se l’interesse del lettore è inequivocabilmente per Miss Havisham ed Estella. Il romanzo assume così la forma di un Bildungsroman (romanzo di formazione).
Non ricordavo quanto Charlse Dickens fosse bravo nell’affiancare descrizioni terribili della miseria e del crimine a episodi umoristici e comici. Peccato che nel corso del romanzo questa nota umoristica, resa bene dall’uso della prima persona, si perda per lasciare spazio ad un susseguirsi di eventi che hanno troppo a che fare con il sensazionalistico.
Forse non è uno dei libri più conosciuti dell’autore, ma a mio avviso rimane il più ionico. Le parti iniziali in cui Pip veniva bistratto dalla sorella le ho trovate esilaranti. Penso che l’immagine della vecchia zitella che non si toglie mai l’abito da sposa, che vive in una casa in cui il tempo si è fermato tranne per la torta nuziale in putrefazione renda bene il concetto.
Venivo trattato come se mi fossi intestardito a venire al mondo, sordo ai dettami di ragione, religione e moralità, e anche alle argomentazioni dissuasive dei miei migliori amici. Persino di fronte all’acquisto di un completo nuovo, il sarto aveva l’ordine di farne una specie di strumento di detenzione, e di non lasciarmi in nessun caso il libero uso degli arti. (Pip)
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Titolo: Il giovane Holden (The Catcher in the Rye)
Autore: J. D. Salinger
Editore: Einaudi
Pagine: p. 251
Anno prima edizione originale: 1951
Acquistalo su Amazon: edizione Einaudi
Anni fa avevo abbandonato la lettura de Il giovane Holden a metà, ma qualcosa mi suggeriva che io e J. D. Salinger ci saremmo incontrati di nuovo. Ho riletto, e questa volta non solo terminato ma anche amato, Il giovane Holden grazie alla mia challege di lettura ispirata dalla serie tv Pretty Little Liars (#PLLBookChallenge) di cui vi parlo in questo articolo.
Di seguito vi lascio l’estratto della puntata S01x16 in cui il libro viene citato nella sua versione francese ATTRAPE-CŒURS.
Non so se intravedere nella capigliatura scarmigliata di Toby il sedicenne Holden Caulfield di Salinger, in realtà l’unico appiglio che ho trovato con la serie tv Pretty Little Liars è il nome del un professore che crede maggiormente nelle doti del protagonista: il Prof. Spencer , si esatto, omonimo di Spencer Hastings.
Come Il buio oltre la siepe (protagonista della prima tappa di questa challenge), Il giovane Holden è un romanzo che parla del passaggio dell’adolescenza all’età adulta.
Un passaggio che compiono anche le nostre Liars nella serie tv.
Toby e Spencer cambieranno molto durante le 7 stagione, ma è bello ricordarli così, timidi e impacciati, a chiacchierare sotto il portico…con qualcuno che li spia come in gran parte delle puntate 
Sono il bugiardo più pazzesco che abbiate mai incontrato. Una cosa mostruoso. Perfino se sto andando all’edicola a comprare una rivista e qualcuno mi chiede dove vado, ecco, io sono capace di dirgli che vado all’opera.
Holden Caulfield ricorda molto un adolescente (per sua stessa ammissione si comporta come uno più piccolo della sua età), sebbene noi lo incontriamo quando sta lasciando il college, non con una laurea in mano, bensì con una bocciatura in tasca.
Il viaggio di ritorno alla casa paterna si rivelerà meno lineare del previsto, complice la vergogna di affrontare i genitori, il peso del fallimento e soprattutto il dolore per la perdita di una persona cara. La trama è tutta qui. Un viaggio di ritorno, che sembra anche più una ripartenza, con due fedeli compagni di viaggio: i pensieri e la rabbia.
Nei suoi libri, i personaggi non se ne stanno seduti da qualche parte a meditare il suicidio. Prendono la pistola e si sparano in testa. (Un anno con Salinger di Joanna Rakoff).
Il giovane Holden è il classico romanzo che un fratello maggiore ti mette in mano dicendoti «questo DEVI leggerlo». Io farò le veci della sorella maggiore e vi dirò: «Leggete il giovane Holden!»
Ma non aspettatevi un deprimente, lezioso o nostalgico racconto in prima persona di un ragazzino in giro per NY, bensì un lungo flusso di coscienza che mostra come ci si può sentire ad essere adolescenti, ad innamorarsi, a non sapere quale sia il tuo posto al mondo, a gioire e a deprimersi a fasi alterne. Il romanzo, scritto in prima persona dal protagonista, ha un linguaggio giovanile e spiritoso. Parole come «stupido», «schifo» e «accidenti» vengono utilizzate di frequente.
Un romanzo di contraddizioni, ma quale adolescente non lo è? Salinger mette Holden totalmente a nudo. Questo il punto di forza del personaggio: essere autentico. Descritto come un bugiardo patologico, lui che le menzogne le odia, mostra molto bene la rabbia e il senso di isolamento ma riesce a canalizzarle in testi descrittivi stupendi (questo il grande rammarico del Prof. Spencer), anche di oggetti apparentemente banali come un guanto da baseball, e in dialoghi emozionanti con la sorellina Phobe (Personaggio A-DO-RA-BI-LE).
La doppiezza è anche nei sentimenti. Ci sono dei momenti in cui si sente quasi felice altri depresso, ma non dimentichiamo che Holden è il ritratto di un personaggio in lutto, la sua “follia” deriva dal dolore di una perdita.
Non so se la me adolescente avrebbe capito e apprezzato questo libro, la Verdiana 35enne però l’ha amato e grazie a lui si è guardata indietro con molta nostalgia e con più comprensione e indulgenza sugli errori passati.
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Titolo: Il buio oltre la siepe (To Kill a Mockingbird)
Autore: Harper Lee
Editore: Zanichelli
Pagine: p. 304
Anno prima edizione originale: 1960
Acquistalo su Amazon: edizione Zanichelli
Di seguito vi lascio il video in cui si parla del libro nella serie tv (puntata S01x04). La lettura del romanzo viene assegnata alla classe dal nuovo professore di letteratura, Mr Fitz.
In una sonnolenta cittadina del profondo Sud degli Stati Uniti, l’avvocato Atticus Finch è incaricato della difesa d’ufficio di un afroamericano accusato di aver stuprato una ragazza bianca. Riuscirà a dimostrarne l’innocenza, ma l’uomo sarà ugualmente condannato a morte.
Prima di vivere con gli altri, bisogna che viva con me stesso. La coscienza è l’unica cosa che non debba conformarsi al valore della maggioranza (Atticus)
Difficile seguire la coscienza quando a lavoro devi difendere un uomo contro il pregiudizio. Eppure Atticus Finch sembra riuscirci, fino alla fine, rischiando anche di mettere in pericolo coloro che ama di più al mondo: i suoi due figli, Scout e il fratello maggiore Jem.
Però non è solo nelle vesti di avvocato che ho apprezzato quest’uomo ma, forse soprattutto, nelle vesti di padre. Ascoltare e parlare ad una bimba (sveglia ai limiti dell’impertinenza e perciò adorabile) di 8 anni, talvolta, è molto più complicato di tenere un’arringa in tribunale.
Denso di avvenimenti e con personaggi delineati alla perfezione, Il buio oltre la siepe rientra tra i libri più belli mai letti. I temi principali (il pregiudizio e il razzismo) oltre ad essere trattati senza retorica si incasellano in un perfetto romanzo di crescita. Non a caso Mr Fitz lo ha definito un romanzo “sul diventare grandi”.
La casa nella quale si cela un uomo cattivo e misterioso appartiene alla famiglia 𝐑𝐚𝐝𝐥𝐞𝐲. A molti questo nome non vorrà dire nulla…ma alle Pretty Little Liars addicted ricorderà il famoso ospedale psichiatrico della serie.
Se le 290 pagine del libro cartaceo vi incutono timore, consiglio l’ascolto dell’audiolibro letto da Alba Rochwacher (dolcissima nei panni della piccola Scout) edito dalla casa editrice Emons Edizioni.
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]]>Io ho recuperato tutte e 7 le stagioni solo nel 2022 e devo ammettere che anche a me le Liars hanno rubato il cuore. Non nascondo il mio debole per Mona e Cece 

Ma non sono qui per parlare di loro, ma di ciò che, in queste lunghe sette stagioni, hanno letto. Nella prima stagione ho sentito parlare con così trasporto Alison di un personaggio di Charles Dickens che mi è venuta l’idea 
Perché non conoscere quelle piccole “stronzette” attraverso le loro letture?
Così ho pensato di raccogliere tutti i titoli citati e leggerli! (Ho materiale per due anni!!!)
Vi presento i primi 12 titoli della challenge ispirata alla serie tv Pretty Little Liars.
Man mano che li leggerò saranno disponibili le singole recensioni (clicca sul titolo corrispondente per leggerle) con il mio punto di vista sul libro e vi dirò se c’è qualche appiglio con la serie tv (piccolo spoiler: si! In molti c’è)



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