Pastorale Americana è un libro dello statunitense Philip Roth sull’amore e sull’odio per l’America, sul desiderio di appartenere a un sogno di pace, prosperità e ordine, sul rifiuto dell’ipocrisia e della falsità celate in quello stesso sogno. Ecco la mia recensione e alcune impressioni dopo averlo letto.
Titolo: Pastorale Americana (American Pastoral)
Autore: Philip Roth
Editore: Einaudi
Pagine: 458 p.
Voto: 5/5
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La trama
Il narratore della storia, Nathan Zuckerman è uno scrittore. La sua narrazione in prima persona, fatta di ricordi e curiosità, ci introduce nella vita di colui che ammira da sempre, Seymour Levov, lo Svedese. Lo conosce dai tempi del Liceo di Weequachic nel quale erano compagni di classe con il fratello minore, Jerry Levov. Una volta terminati gli studi, l’adorato e l’adoratore perdono i contatti per rincontrarsi, dopo trentasei anni, una sera d’estate del 1985 allo stadio di New York. Lo Svedese, dieci anni dopo questo incontro casuale, contatta Nathan perché pensa sia la persona più adatta ad assolvere ad un determinato compito. Scrive una lettera con una richiesta, vuole parlargli del padre morto qualche tempo prima in modo che lui possa scrivere dei duri colpi che si erano abbattuti su i suoi cari. Se lo Svedese lo vuole vedere, Nathan non può che esaudire la sua richiesta.
Lo Svedese ha settantanni, ha sei o sette anni più di lui, e con alle spalle un’operazione alla prostata che non ha scalfito in alcun modo la sua bellezza. Stessa operazione, ma sorte diversa per Nathan, perché, ovviamente, lui non è lo Svedese. La serata termina, ma alla lettera non si fa alcun cenno. Che Seymour abbia ambiato idea? Che non sia pronto a dare un impressione diversa da quella dell’uomo perfetto che tutti credono?
Il presente dello Svedese è ben diverso dal passato che ricorda Nathan. Lo deduce già dal fatto che al posto di Dawn c’è una biondina sulla quarantina. Che fine ha fatto la prima moglie? Nathan non se lo spiega, un eventuale divorzio non quadrava col ritratto dello Svedese, una persona così decisa a rifiutarsi di ammettere l’elemento irrazionale della vita. Non tarderà a capire, sarà Jerry a spiegargli ogni cosa.
Nel 1968 una liceale di nome Meredith ha messo una bomba nell’ufficio postale dello spaccio uccidendo un uomo. Lei è Merry Levov. La «terrorista di Rimrock» è la figlia di Seymour.
La mia recensione
Philip Roth è stato uno dei nomi di cui ho sentito più discutere fra i miei coetanei negli ultimi anni. Insieme a Ian McEwan, rappresenta una delle mie più grandi lacune se si considera la letteratura inglese e americana quella che prediligo. Complice la sua scomparsa lo scorso maggio, e la pubblicazione di una nuova collana in uscita con il Corriere della Sera, mi sono detta: è il momento di conoscerlo! La fama che precede l’autore è più che meritata.
Roth ha la capacità di intrecciare storie e tematiche diverse con estrema semplicità. La guerra, il razzismo, la diversità, i contrasti. Ho letto questo libro innamorata della narrazione e con il piacere di conoscere lo Svedese, provare a capire le sue azioni, intravedendo la lotta che vive con se stesso.
Lo Svedese è buono, cioè passivo, cioè uno che cerca di fare sempre le cose giuste: un carattere socialmente controllato che non esplode mai, non cede mai all’ira. Non avendo la rabbia al passivo, non l’ha neppure all’attivo. Secondo questa teoria è la mancanza di rabbia che finisce per uccidere. Mentre l’aggressività deturpa e guarisce.
Ma quanto di Seymour c’è nelle scelte che prende? Qual è la sua soggettività? Secondo Nathan un substrato ci dev’essere, ma la sua composizione è inimmaginabile. Vive un eterno contrasto, è egli stesso un contrasto. E’ un ebreo biondo con gli occhi azzurri, è il marito ebreo di una donna cattolica, è un padre americano di una figlia terrorista che lotta contro la patria.
L’eterna contraddizione degli ebrei – che vogliono integrarsi e vogliono star fuori, che dicono di essere diversi e dicono di non essere diversi.
Pagina dopo pagina, una frase prendeva sempre più spazio nella mia testa: la perfezione non esiste. Comportarsi sempre “bene” non vuol dire avere in cambio il bene, se una persona sorride non vuol dire che sia felice, prodigarsi per il piacere altrui non fa di te una persona altruista.
Il libro ha una narrazione circolare, quello che apprendiamo alla fine è in realtà quello che abbiamo sempre saputo. La curiosità di sbirciare nella camera di Seymour porta Nathan a leggere il titolo di un libro, uno dei tanti allineati in ordine alfabetico tra due massicci reggilibri: Il ragazzo di Tomkinsville. La stima per Lo Svedese lo porta a prenderne una copia in prestito e a leggerlo.
Avevo dieci anni e non avevo mai letto nulla di simile. La crudeltà della vita! L’ingiustizia! Non ci potevo credere. Razzle Nuget è un ubriacone e testa calda, un bullo prepotente. Eppure non è Razzle che portavano via, «inerte» in barella, ma il migliore di tutti, l’orfano, il ragazzo di campagna, modesto, serio, casto, leale, ingenuo, ardimentoso, laborioso, educato, coraggioso, un atleta brillante, un ragazzo bello e austero. Non occorre dire che, lo Svedese ed il ragazzo erano la stessa persona.
Lo Svedese
La vita di Levov lo Svedese, per quanto ne sapevo io, era stata molto semplice e molto comune, e perciò bellissima, perfettamente americana.
Con la presentazione di Seymour Irving Levov, e con l’ausilio della penna del proprio alter ego Nathan Zuckerman, Philip Roth apre il romanzo che nel 1998 gli vale il Premio Pulitzer per la Narrativa.
Era magico il nome come l’eccezionalità del viso. […] nessuno aveva nulla che somigliasse anche lontanamente alla mascella quadrata e all’inespressiva maschera vichinga di questo biondino dagli occhi celesti. […] Ovunque apparisse, la gente era innamorata di lui.
Lo Svedese, ecco com’è conosciuto Seymour. Nulla può andare male nella sua vita “perfetta” a Newark Maid, New Jersey. Al liceo era già una celebrità, un ragazzo al quale si ha soggezione ad avvicinarsi. Brillava come estremo nel football, era pivot nel basket e prima base a baseball. Tutti volevano essere come lui e Nathan non faceva eccezione.
Non riuscivo a immaginare nulla di meglio che essere il fratello dello Svedese (tolto il fatto di essere li Svedese).
Con la guerra lo Svedese non si lascia dissuadere dall’affrontare la sfida patriottica e virile. Dopo Pearl Harbor accetta la di andare a combattere come uno dei più duri fra i duri. Con la bomba di Hiroshima, però, da aspirante recluta diventa uno «specialista nella ricreazione» facendo fare ginnastica al suo battaglione. Torna come eroe di guerra, seppur la guerra non l’abbia dovuta affrontare. Da ebreo riesce a sposare una shiska, una ragazza non ebrea, di nome Dawn Dwyer. Lei è Miss New Jersey. Ma nessuno attraversa la vita senza essere segnato in qualche modo dal rimpianto, dal dolore, dalla confusione e dalla perdita. La vita dello Svedese non fa eccezione.
Libri da leggere dopo Pastorale Americana
Dopo aver conosciuto la penna di Roth non la si può non amare. Se staccarsi dalla narrazione è difficile, lo è altrettanto scegliere il prossimo “Roth” da leggere, complice anche la splendida Collana Einaudi dedicata. Ti propongo perciò due titoli con i quali proseguire la lettura di questo straordinario autore. Si tratta dei due libri che fanno parte, insieme a Pastorale Americana, della cosiddetta Trilogia di Zuckerman, in cui l’alter ego di Philip Roth veste i panni del narratore.
Titolo: Ho sposato una comunista (I Married a Communist)
Autore: Philip Roth
Editore: Einaudi
Pagine: 322 p.
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Titolo: La macchia umana (The Human Stain)
Autore: Philip Roth
Editore: Einaudi
Pagine: 299 p.
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5 commenti
[…] è libro che gli valse il Premio Pulitzer per la narrativa nel 1998 (trovi la recensione cliccando qui). Lì avevamo uno Svedese alle prese con il fallimento di una vita condotta in modo che fosse […]
[…] che la perfezione non esiste (leggi perché nella mia recensione a Pastorale Americana cliccando qui), con Paul Auster ho imparato che nessun evento rende il tuo percorso necessariamente più brutto […]
[…] nel personaggio di Merry in Pastorale americana (puoi leggere la mia recensione qui) che in quello di Sylphid in Ho sposato un comunista si ravviserebbe, in effetti, un certo astio […]
[…] Americana (che valse il Premio Pulitzer) e Ho sposato un comunista (puoi leggere le recensioni qui e qui). Si tratta di romanzi autoconclusivi, perciò non di una vera e propra saga, ma legati da […]
[…] da cui sono partita per conoscere Ian McEwan. Come per Pastorale americana di Philip Roth (clicca qui per leggere la recensione), ho voluto iniziare da quello che viene ritenuto il suo masterpiece, […]